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BlogLead Generation e GDPR: perché la trasparenza sui dati è (davvero) obbligatoria e come verificarla
15 luglio 2025
Lead generation: ottenere contatti “GDPR ready” può costare caro. Scopri come verificare origine, consenso ed evitare sanzioni milionarie.
Le aziende B2B e B2C competono ogni giorno per conquistare l’attenzione di prospect ormai abituati a ricevere decine di messaggi promozionali. In questo scenario, generare contatti qualificati non basta più: occorre garantirsi che tali contatti siano aggiornati, provenienti da fonti lecite e utilizzabili senza violare il Regolamento (UE) 2016/679, meglio noto come GDPR.
Il problema? I database proprietari si esauriscono in fretta e i social network, complice il calo della reach organica, non sono più un terreno fertile come un tempo. Molte organizzazioni si rivolgono quindi a piattaforme di lead generation che promettono migliaia di record “GDPR ready” a portata di clic.
Ma la ricerca del “quick win” rischia di trasformarsi in un boomerang legale e reputazionale: senza la certezza della base giuridica è facile scivolare in violazioni che possono costare fino al 4 % del fatturato annuo mondiale. Ecco perché diventa strategico conoscere non solo il volume dei dati offerti, ma soprattutto l’origine, le modalità di raccolta e i consensi acquisiti: in altre parole, la vera trasparenza sul dato.
Le piattaforme di lead generation sfruttano algoritmi, connettori API e automazioni di data scraping per rastrellare informazioni da social, registri pubblici e siti aziendali. A volte stipulano accordi con data broker esteri che aggregano elenchi provenienti da fiere, eventi o studi di settore.
Il punto dolente è che spesso l’utilizzatore finale non sa distinguere tra dato raccolto legittimamente e dato frutto di mere operazioni di scraping non autorizzato.
Un esempio tipico?
Le e-mail “info@” o gli indirizzi personali estratti da LinkedIn senza il consenso dell’interessato. Sebbene la piattaforma assicuri di aver “resettato” la base utenti escludendo indirizzi datati, raramente chiarisce se il consenso esplicito sia stato davvero acquisito oppure se si stia sfruttando la (ormai superata) nozione di “legittimo interesse”.
In mancanza di documentazione, l’azienda che compra quei contatti assume inconsapevolmente il ruolo di titolare del trattamento ed è soggetta a responsabilità in solido qualora il dato risultasse illecito. Per questo è cruciale chiedere sempre:
Senza queste risposte, il database non è un asset, ma un rischio.
Molte landing page di provider internazionali vantano database “100 % B2B compliant” o “GDPR ready”. Ma il regolamento europeo è chiaro: affinché il trattamento di dati personali per finalità di marketing sia lecito, occorre una base giuridica tra quelle indicate all’articolo 6.
Nel caso del marketing diretto, la base predominante è il consenso libero, specifico, informato e inequivocabile. Deve essere documentato (opt-in), facilmente revocabile (opt-out) e separato da altre finalità (no caselle pre-flaggate). Vale anche nel B2B: se il dato può ricondurre a una persona fisica (ad esempio name.surname@azienda.it), ricade a pieno titolo nella disciplina privacy. Inoltre, il principio di accountability impone di poter dimostrare in ogni momento la liceità del trattamento.
Delegare la raccolta a un fornitore non esonera l’azienda dalla responsabilità: se il provider non custodisce log di registrazione, timestamp e privacy policy accettate, l’onere probatorio ricade comunque sull’advertiser.
Quindi, prima di importare un file CSV in CRM, occorre verificare la granularità del consenso, la fonte e la durata dello stesso (il consenso non è eterno). Senza queste garanzie, la dicitura “GDPR ready” è solo marketing.
L’8 aprile 2025 il Garante per la Protezione dei Dati Personali ha aperto un’istruttoria nei confronti di Lusha Systems Inc., piattaforma nota per fornire recapiti telefonici ed e-mail di professionisti di tutto il mondo.
Secondo l’Autorità, ci sarebbero dubbi sulla presenza di una valida base giuridica e sulla liceità della diffusione di dati raccolti tramite estensioni browser di scraping.
Il procedimento — tuttora in corso — è un campanello d’allarme per chi pensa che l’acquisto di lead tramite software SaaS sia sempre “plug-and-play”.
Le contestazioni riguardano in particolare:
Per le aziende italiane che utilizzano quei contatti, il rischio è duplice: da un lato possibili sanzioni amministrative, dall’altro la perdita di credibilità presso prospect e clienti.
La lezione è semplice: prima di integrare i dati di una terza parte, occorre svolgere una due diligence GDPR, chiedendo prove concrete e contrattualizzando responsabilità, penali e clausole di indennizzo. Solo così si può trasformare il “caso Lusha” in opportunità di miglioramento anziché in un futuro problema.
Molte imprese ritengono che la responsabilità ricada unicamente sul fornitore del database. In realtà, l’art. 82 del GDPR stabilisce la responsabilità solidale tra titolare e responsabile del trattamento. Ciò significa che l’Autorità può imporre sanzioni sia alla piattaforma sia all’azienda che utilizza contatti non conformi.
Le violazioni più frequenti includono l’invio di newsletter senza previo consenso, l’archiviazione di dati obsoleti e l’assenza di registro dei trattamenti. A ciò si aggiunge il danno reputazionale: un “data breach” di contatti irregolari o una semplice segnalazione al Garante può trasformarsi in articoli di stampa, post virali e contraccolpi sulle vendite.
In termini economici, la multa può arrivare a 20 milioni di euro o al 4 % del fatturato annuo globale; in termini di opportunità, si rischia di perdere clienti che valutano la compliance un asset fondamentale della supply chain.
Per mitigare questi rischi, è importante redigere Data Processing Agreement chiari:
Spuntare positivamente tutti i punti non è garanzia assoluta, ma riduce sensibilmente la possibilità di incorrere in violazioni. In caso di dubbi, meglio richiedere un parere al DPO interno o a consulenti specializzati, documentando ogni passaggio.
Adottare uno standard elevato di compliance non significa sacrificare la crescita del business: al contrario, le aziende che puntano su dati first-party genuini registrano tassi di apertura e conversione superiori alla media.
Strategie come i content webinar, i white paper gated e le community di prodotto consentono di attrarre prospect motivati e consapevoli, disposti a concedere un consenso informato in cambio di contenuti di valore.
L’uso di automation platform (es. HubSpot, Pardot) con workflow basati su tag di consenso e segmentazioni comportamentali permette di mantenere la compliance senza perdere efficienza.
Inoltre, registri di trattamento aggiornati, Privacy Impact Assessment periodici e formazione continua del team marketing creano una cultura del dato sostenibile.
Il risultato? Un funnel resiliente, basato su relazioni di fiducia e privo di sorprese normative.
Hai dubbi sulla liceità dei contatti nel tuo CRM o sulla piattaforma di lead generation che intendi acquistare? Richiedi ora una consulenza privacy, il nostro team analizzerà le fonti dati, verificherà i consensi e ti affiancherà nell’implementazione delle migliori pratiche GDPR.